L’etichettatura di un prodotto alimentare è fattore di fondamentale valore per l’informazione del consumatore, rappresentando, al contempo, una importante opportunità per la rimozione di ostacoli e opacità rispetto alla libera circolazione delle merci.

Il descritto fattore evidenzia la risalente ambiguità fra le finalità dello strumento giuridico in rassegna: da un lato, difatti, esso è volto a garantire la completa affermazione degli interessi economici dei produttori, dall’altro – con una più ampia accezione pubblicistica – la normativa in commento ambisce a far divenire le denominazioni geografiche e gli altri regimi regolati il perno di illuminate politiche di protezione delle aspettative diffuse dell’utenza.

La strategica funzione della materia ha imposto, nel tempo, l’intervento a più riprese del legislatore comunitario, attraverso numerose operazioni di implementazione del quadro normativo di riferimento.

Il Regolamento UE 178/2002 rappresenta la norma quadro in materia di diritto alimentare comunitario, evolutosi ed affinatosi – come detto – sino ad arrivare all’entrata in vigore del Regolamento UE 1169/2011 del 25 ottobre 2011, concernente le informazioni ai consumatori sugli alimenti.

La sua piena applicazione, posticipata al fine di consentire agli operatori di adeguarsi progressivamente alle nuove regole, ha avuto effetto dal 13 dicembre 2016, con l’introduzione dell’obbligo di apposizione delle indicazioni nutrizionali sugli alimenti.

Tra i prodotti alimentari alcuni presentano caratteristiche chimico-organolettiche e produttive derivanti dall’ambiente geografico in cui sono stati ottenuti, tale da distinguerli rispetto ad altri della stessa categoria.

Per tali produzioni sono stati previsti dedicati strumenti di riconoscimento e valorizzazione, offrendo loro un’ampia tutela giuridica, funzionale ad evitare, su tutto il territorio della Comunità, fenomeni di illegittimo o fraudolento utilizzo della relativa denominazione di origine.

Il settore è disciplinato dai Regolamenti CE n. 510/2006 e n. 1898/2006, successivamente abrogati e sostituiti dal Regolamento UE n. 1151/2012, con il quale sono stati disegnati modalità e requisiti per il rilascio delle denominazioni D.O.P. (Denominazione di Origine Protetta) e I.G.P. ( Indicazione Geografica Protetta).

La DOP è il nome di un luogo, di una regione o, in casi eccezionali, di un paese, tendente a designare un prodotto agricolo o alimentare originario di un determinato contesto territoriale. Le qualità e le proprietà di un prodotto DOP devono essere riconducibili essenzialmente o esclusivamente all’ambiente geografico, compendiante distintivi fattori materiali e umani, e le relative fasi di produzione devono avere origine e risolversi all’interno dell’area geografica delineata.

L’IGP presuppone, alla stessa stregua, un forte legame geografico, ma non necessita un essenziale o esclusivo rapporto con il territorio, potendo il cennato vincolo limitarsi anche in una sola fase del processo produttivo.

L’istanza per la registrazione di una denominazione DOP o IGP prevede una prima validazione a livello nazionale, ad opera del competente Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, ed una seconda, a livello comunitario, a cura dei preposti uffici della Commissione Europea.

Il rinforzato sistema di tutele per le descritte produzioni – attraverso l’inibizione di ogni impiego commerciale diretto o indiretto, imitazione, evocazione o usurpazione della denominazione – mira ad impedire lo sviluppo di insidiose prassi astrattamente idonee ad indurre in inganno il consumatore in ordine alla vera origine del bene.

Come per la disciplina generale sulla produzione e commercializzazione dei prodotti alimentari, anche per le produzioni IGP e DOP la regolamentazione del sistema sanzionatorio, nel quadro dei precetti fissati a livello comunitario, è stata lasciata alla competenza del legislatore nazionale, il quale ha – attraverso il D.lgs. 297/2004 – sancito il novero delle sanzioni amministrative per le violazioni commesse in ipotesi di illecita commercializzazione di prodotti DOP e IGP ovvero di fraudolento utilizzo di tale denominazione di origine, introducendo, successivamente, con la legge 23 luglio 2009, n. 99, la speciale ipotesi di cui all’art. 517 quater del codice penale (Contraffazione di indicazioni geografiche o denominazioni di origine dei prodotti agroalimentari).

Un ruolo centrale nel sistema di difesa e vigilanza delle menzionate produzioni viene attributo ai Consorzi di Tutela, le cui precipue funzioni meritano, in questa sede, uno specifico approfondimento.

In Italia, i Consorzi collaborano, secondo le direttive impartite dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, alla tutela e alla salvaguardia della DOP o della IGP da abusi, atti di concorrenza sleale, contraffazioni, uso improprio delle denominazioni tutelate e comportamenti comunque vietati dalla legge.

Essi sono, altresì, chiamati allo svolgimento di funzioni di tutela, di promozione, di valorizzazione, di informazione del consumatore e di cura generale degli interessi della relativa denominazione, nonché all’attuazione di specifiche azioni di vigilanza da espletare prevalentemente nella fase del commercio, in collaborazione con l‘Ispettorato Centrale della tutela della Qualità e Repressione Frodi dei prodotti agro-alimentari (ICQRF) e in raccordo con le regioni e le province autonome.

Proprio in relazione alle attività di vigilanza affidate ai Consorzi di tutela sono emerse numerose criticità interpretative in ordine al perimetro delle loro competenze ed al tenore delle loro eventuali responsabilità in caso di inadempienze nell’esercizio delle descritte, delicate funzioni.

Si pensi, ad esempio, a quanto disposto dall’articolo 1, co. 1 lett. c) del decreto legislativo n. 297 del 19 novembre 2004, il quale ha stabilito come ogni impiego commerciale di denominazioni geografiche registrate in sede UE nell’etichettatura, presentazione o pubblicità di prodotti elaborati o trasformati sia da considerarsi illecito ad eccezione dei casi in cui la denominazione risulti il componente esclusivo della categoria merceologica di appartenenza e gli utilizzatori del prodotto composto, elaborato o trasformato siano stati autorizzati dal Consorzio di Tutela della denominazione protetta ed inseriti in apposito registro attivato tenuto ed aggiornato dal Consorzio stesso.

Il precetto in commento attribuisce, in tal modo, ai Consorzi una funzione simile a quella del titolare di un marchio collettivo, enunciando un generale divieto di evocazione, usurpazione o imitazione delle denominazioni geografiche protette da parte di prodotti competitivi ed astrattamente confondibili.

L’architettura della menzionata previsione, tuttavia, va letta alla luce dalla successiva entrata in vigore del Regolamento UE n. 1151/2012 in data 14 dicembre 2012, che ha disciplinato, in ambito comunitario, le modalità ed i limiti di utilizzo dei toponimi registrati come ingredienti caratterizzanti.

Con riferimento ai prodotti DOP e IGP, la novella comunitaria sembra, difatti, aver limitato l’autonomia del legislatore statale, spogliandolo della facoltà di imporre – entro i propri confini – requisiti di tutela aggiuntivi a quelli tipizzati dalla norma comunitaria (tra cui, evidentemente, la richiamata procedura autorizzatoria preventiva di cui al citato art. 1 del D.lgs n. 297/2004).

Di contro, il medesimo Regolamento – in modo non certo coerente – consolida il ruolo dei Gruppi (in Italia Consorzi di tutela) nel descritto meccanismo di tutela delle produzioni DOP e IGP, assegnando loro la potestà di adottare provvedimenti volti a impedire o contrastare ogni misura o pratica che rischi di svalorizzare l’immagine dei prodotti protetti.

Il quadro giuridico nazionale, pur con i segnalati limiti di omogeneità ed univoca interpretazione, segna – con coerente precisione – il perimetro delle responsabilità in caso di inadempienze nello sviluppo ed attuazione di un’efficace azione di vigilanza sulle produzioni DOP e IGP.

In disparte la previsione dell’articolo 6 del decreto legislativo 297/2004, che prescrive severe sanzioni amministrative a carico dei Consorzi inadempienti, illuminante, in tal senso, è la scelta del legislatore interno di inserire l’art. 517 quater c.p. nello spettro dei reati-presupposto del D.lgs. 231/2001.

Sembra, a questo punto, evidente la necessità che, anche per rifuggire da responsabilità “para-penali”, i Consorzi si adoperino – a fronte di esigenze di tutela in progressiva espansione – per l’adozione di strutturati modelli di organizzazione interna, in grado di consentire il mantenimento di uno stretto rapporto con i consorziati, favorire lo sviluppo di funzioni di vigilanza pienamente efficaci nonché dare la necessaria concretezza ad un sistema di difesa – come visto – meticoloso ma, invero, assai frammentato.