La natura giuridica dei Consorzi di tutela, come contemplata dal codice civile e specificata dalla normativa comunitaria, ha spesso originato problemi di univoca interpretazione dei connessi profili fiscali, con specifico riferimento al regime IVA applicabile.

La questione, invero, trae origine dalla doppia anima del Consorzio che, da un lato, agisce verso l’esterno in rappresentanza delle imprese consorziate e, dall’altro, retrocede alle aziende associate i risultati delle operazioni realizzate.

Partendo dalla nota sentenza della Corte di Cassazione, n. 22644 in data 2 dicembre 2004, la giurisprudenza, anche comunitaria, è stata più volte chiamata a pronunciarsi in ordine alle possibilità di attribuzione, o negazione, ai Consorzi dei requisiti per l’esercizio di attività imprenditoriale di natura commerciale, presupposto necessario alla legittima detrazione dell’imposta assolta sugli acquisti.

Preliminarmente e per necessario titolo di chiarezza, è importante richiamare il contenuto dell’art. 4, co. 5, del DPR 633/1972, che individua, in ogni caso, come non commerciali “le prestazioni alle imprese consorziate (…) da parte di consorzi (…) di garanzie mutualistiche e di servizi concernenti il controllo qualitativo dei prodotti, compresa l’applicazione dei marchi di qualità”.

In tutte le restanti ipotesi, è necessario – nell’ambito del paradigma tracciato dal D.P.R. 633/72 – procedere ad una compiuta disamina del tipo di attività concretamente posta in essere dal Consorzio (interna o esterna) e dei rapporti interni tra l’Ente consortile e l’azienda associata, distinguendo i casi in cui il mandato sia esercitato con o senza rappresentanza.

Nell’ipotesi di attività esterna, in via generale, si ritiene che le attività poste in essere dal Consorzio siano di natura commerciale e, pertanto, diano origine ad operazioni soggette ad IVA. Costituisce eccezione il caso in cui il Consorzio, in concreto, eserciti attività prevalentemente non commerciale; nondimeno, in tali ipotesi, l’assoggettabilità ad IVA è relativa alle operazioni realizzate nell’ambito della eventuale attività di intermediazione (ritenuta, dunque, di natura commerciale).

Nel caso più frequente di attività esterna esercitata da un Consorzio con mandato senza rappresentanza, l’Ente consortile  si trova ad agire nell’interesse dei consorziati ma a nome proprio, con la conseguenza che gli effetti giuridici degli atti posti in essere ricadono direttamente nella propria sfera giuridica.

Le attività in tal modo assicurate, siano esse eseguite o ricevute, sono considerate, a norma dell’art.3, co.3, del DPR 633/72, prestazioni di servizi che il Consorzio – nel caso di prestazioni effettuate – può, se agisce direttamente, decidere di fatturare per intero al cliente (operazione imponibile ai fini IVA), ricevendo a sua volta la fattura della prestazione pro-quota assicurata da ogni singola azienda consorziata, ovvero – se non agisce direttamente – agevolare la singola fatturazione dei consorziati a beneficio del cliente, fatturando a sua volta ai consorziati il solo valore dell’intermediazione garantita (imponibile IVA).

In ogni caso, anche alla luce delle indicazioni fornite dall’Agenzia delle Entrate, con la circolare n. 5 del 17 febbraio 2011, nei rapporti consorzio/società consortile vi è, a norma dell’art. 10, co. 2, del DPR 633/72, la possibilità di fatturare ai singoli consorziati in esenzione IVA, nel caso in cui i consorziati/soci abbiano usufruito, nel corso del triennio precedente, di una percentuale di detrazione di cui all’art. 19-bis, anche per effetto dell’opzione di cui all’art. 36-bis, non superiore al 10 per cento, a condizione che i corrispettivi dovuti dai consorziati o soci ai predetti consorzi e società non superino i costi imputabili alle prestazioni stesse.

L’interpretazione piuttosto estensiva fornita a suo tempo dall’Amministrazione finanziaria traeva forza dal dedicato richiamo all’art. 132, par. 1, lett. f), della Direttiva n. 2006/112/CE, che consente agli Stati membri di esentare: “le prestazioni di servizi effettuate da associazioni autonome di persone che esercitano un’attività esente o per la quale non hanno la qualità di soggetti passivi, al fine di rendere ai loro membri i servizi direttamente necessari all’esercizio di tale attività(…)”.

In verità, tale chiave di lettura è stata messa fortemente in discussione da una serie di pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che, lo scorso 21 settembre 2017, con tre contemporanee sentenze (c-326/15, C-605/15 e C-616/15), ha drasticamente ridotto il livello di compatibilità tra la previsione contemplata dal comma 2 dell’art. 10 del D.P.R. 633/72 e la richiamata Direttiva comunitaria.

Secondo la Corte, infatti, l’art. 132, par. 1, lett. f) della Direttiva, essendo inserito nel Capo 2 del Titolo IX della previsione comunitaria, si applicherebbe solo alle esenzioni ivi contemplate, ossia quelle “a favore di alcune attività di interesse pubblico”, senza alcuna possibilità di estensione.

La questione resta, dunque, assai dibattuta e si intreccia con lo storico tema attinente alla possibilità, in presenza di finalità mutualistiche (tipiche, ad esempio di un Consorzio di tutela), che possa comunque sussistere il presupposto applicativo dell’IVA, il quale – secondo la prevalente dottrina – sorge alla fonte in ragione della natura commerciale dell’attività svolta, i cui proventi sono poi eventualmente distribuiti mutualisticamente.

Ovviamente non possono – per le anzidette finalità – essere tenute in considerazione le prescrizioni di cui all’art. 19 terdel D.P.R. 633/1972 che impone agli Enti che non abbiamo per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di un’attività commerciale o agricola di gestirla con contabilità separata rispetto a quella principale.