Continuiamo l’analisi del reato di corruzione tra privati e rivolgiamo ora l’attenzione sul novero dei soggetti previsti dalla nuova norma che possono concretamente perfezionare il delitto soffermandoci, in particolare, sulla tipologia di funzioni che gli stessi svolgono in ragione di un determinato rapporto che li lega all’ente, in modo da individuare le ipotesi in cui le condotte da questi compiute possano assumere rilevanza penale.

È bene sin da subito evidenziare che l’art. 2635 co. 1 c.c. ad oggi si riferisce non solo agli amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione di documenti contabili societari, sindaci e i liquidatori di società o enti privati, anche coloro che svolgono funzioni direttive diverse da quelle proprie dei soggetti sopra richiamati.

L’inserimento anche di tale categoria di soggetti scaturisce dalla volontà di estendere l’ambito applicativo della normativa al fine di sanzionare anche i comportamenti tenuti da altri soggetti che, seppur non riconducibili alle figure apicali propriamente dette, siano comunque responsabili della gestione di incarichi rilevanti. In questo senso, si è inteso colmare una potenziale lacuna normativa che rischiava di creare un’ingiustificata area di impunità, in palese contrasto con le finalità repressive perseguite nel contesto comunitario ed internazionale.

Sembra allora che ci si voglia riferire a quanti si collochino in una fascia per così dire intermedia compresa tra chi eserciti funzioni direttive apicali o di direzione generale e coloro invece che siano sottoposti all’altrui direzione o vigilanza, quest’ultimi richiamati nel comma 2 dell’art. 2635 c.c. e così inclusi nel novero dei soggetti attivi del reato.

Si fa l’esempio dei direttori di settore (c.d. manager) oppure di chi sia titolare di incarichi di rilievo decisionale all’interno di una specifica area aziendale, anche qualora assumano tale veste in via meramente di fatto, ossia adempiendo alle proprie funzioni nel concreto senza alcuna investitura formale.

D’altronde è la stessa normativa societaria a prevedere esplicitamente che per i reati elencati nel Titolo XI del codice civile al “soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge civile è equiparato sia chi è tenuto a svolgere la stessa funzione diversamente qualificata, sia chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione” (art. 2639 comma 1 c.c.), in tal modo già includendo ogni altra figura che adempia fattivamente ai compiti generalmente riconosciuti in capo agli amministratori o ai direttori generali.

Per gli enti privati, essendo inopportuno operare una generalizzazione, si dovrà di volta in volta procedere all’individuazione dei potenziali soggetti che possono rientrare in tale categoria, tenendo conto della distinta struttura organizzativa che gli enti stessi acquisiscono. Ad esempio, per le fondazioni bancarie, si potrebbe considerare come tale il sottosegretario generale o, per gli enti ove tale carica non sia prevista, colui al quale siano attribuite funzioni analoghe.

La nuova configurazione della norma è il frutto di un chiaro tentativo di adeguamento alle indicazioni provenienti dagli organi internazionali rivelatosi tuttavia, agli effetti, incompiuto.

Nell’art 2.1. lett. a) della Decisione quadro 2003/568/GAI del 22 luglio 2003, alla quale la riforma si ispira, si fa riferimento diversamente a “persona (…) che svolge funzioni direttive o lavorative di qualsiasi tipo per conto di un’entità del settore privato” così come agli artt. 7 e 8 della Convenzione del Consiglio d’Europa si parla di “persona che dirige un ente privato o che vi lavora”, che secondo precisato dal par. 54 del Rapporto esplicativo della Convenzione stessa “si tratta di una nozione assai ampia, da intendere in modo generale; invero, in essa rientra non solo la relazione tra datore di lavoro e impiegato, ma anche ulteriori tipi di rapporti, ad esempio tra i soci, tra l’avvocato e il suo cliente e altri ancora nei quali non ricorre un contratto di lavoro”.

Si aggiunge, inoltre, che “nelle imprese private, la nozione in esame deve comprendere non solo i salariati, ma anche i dirigenti a ogni livello, ivi inclusi i membri del consiglio di amministrazione, ma non solo gli azionisti. Allo stesso modo essa si estende a coloro che non hanno lo status di impiegato o che non prestano stabilmente la loro opera per l’impresa – ad esempio consulenti, agenti commerciali ecc. – ma che possono nondimeno impegnare la responsabilità di essa”.

La critica avanzata al legislatore interno è l’aver, di fatto, ancorato le nuove definizioni sempre alle realtà tipiche presenti nelle società commerciali. Rivela, infatti, come sia stata preferita una dicitura che individui tali figure a seconda che le medesime svolgano funzioni direttive diverse da quelle tipicamente esercitate dalle cariche aziendali previste dalla normativa civilistica-societaria (amministratori, direttori generali, ecc.) e con ciò vincolando l’individuazione delle stesse anche le funzioni residuali all’inquadramento che assumano all’interno della struttura organizzativa verticale descritta dal codice.

Già nella fattispecie di istigazione alla corruzione descritta nell’art. 2635 bis c.c. è prevista una diversa formula di “svolgimento di attività lavorativa (in società o in altri enti privati), con l’esercizio di funzioni direttive” certamente più allineata alle fonti internazionali sopra citate. Data l’indeterminatezza dell’espressione utilizzata ci attende che la giurisprudenza fornisca il proprio contributo per individuare chi possa essere ricompreso tra i soggetti idonei ad integrare le fattispecie corruttive in oggetto.

La riforma non ha invece inciso sul fronte della corruzione attiva, descritta al comma 3 dell’art. 2635 ove si imputa ad un soggetto qualunque la condotta di offrire, promettere o dare denaro o altra utilità non dovuti. Sebbene la disposizione non pone alcun limite all’identificazione dei soggetti rilevanti, due sono essenzialmente le figure soggettive corruttrici/istigatrici di maggiore interesse ossia il corruttore/istigatore, inserito nell’ente e che operino per conto di esso e il corruttore/istigatore fornitore. Mentre nel primo caso entrerebbero in gioco gli esponenti aziendali che essi abbiano esercitato i poteri a loro conferiti in modo disfunzionale, l’illecito tenderà a collocarsi tra i vertici aziendali, per le ipotesi invece in cui sia un fornitore a realizzare la condotta illecita, saranno influenzate e così impegnate le fasce medio-basse della compagine societaria.

La formula elastica è stata prescelta appositamente per consentire di non precludersi alcuna eccezione concreta ampliando i casi in cui è possibile che i comportamenti posti in essere dalle singole persone fisiche possano determinare una responsabilità para-penale dell’ente, visto l’inserimento della previsione dell’art. 2635 comma 3 c.c. tra i reati societari previsti nell’art. 25 ter del D.lgs. 231/2001.

È evidente, quindi, che data l’ampia gamma di soggetti che possono con le proprie condotte chiamare a rispondere anche l’impresa, è bene che la stessa si tuteli adottando un Modello organizzativo 231 che fissi specifici protocolli i quali, ove opportunamente seguiti, siano in grado di prevenire il rischio che si verifichino episodi corruttivi e nominando un Organismo di Vigilanza che monitori sull’effettiva osservanza dei contenuti prescritti.

A tal proposito, è necessario affidarsi alla professionalità e alla preparazione tecnico-giuridica dell’avvocato che sino ad oggi siamo abituati a vedere solo ed esclusivamente come un protagonista del Foro, negli ultimi anni non ci siamo accorti come tale figura si sia progressivamente trasformata per divenire un fidato consulente che accompagna l’impresa nel processo di adeguamento alle normative vigenti.